Il cielo estremo

di Silvia Mazzoni
I  Sami, erroneamente chiamati Lapponi dai loro vicini, sono la popolazione autoctona più antica d’Europa. In epoca storica sono stati spinti sempre più a Nord da altre civiltà, che si sono stanziate nelle zone più a sud. I Sami si sono sempre più specializzati nel sopravvivere in condizioni estreme laddove nessun altro è stato in grado di resistere. Oggi (in numero complessivo di circa 50.000) vivono in un territorio che appartiene a quattro nazioni: Russia, Finlandia, Svezia e Norvegia. Solo recentemente è iniziato un processo di riconoscimento e riparazione dei danni e delle sofferenze inflitte a questo popolo pacifico nei secoli scorsi.

Il territorio dei Sami è molto particolare. Per molti mesi all’anno si presenta con un manto bianco che lo ricopre interamente e una temperatura media annua che si aggira intorno al mezzo grado. Le brevi estati, per quanto luminose, mostrano un paesaggio che inevitabilmente è poco generoso di vegetazione, tanto per gli animali quanto per gli uomini. Gli immensi terreni delle aree subartiche non sono praticamente coltivabili. Le risorse naturali (sottosuolo escluso) consistono fondamentalmente nella fauna subartica, che la natura ha fatto adattare a questo ambiente così poco generoso. Pochi animali resistono a queste temperature e riescono a trovare il cibo per sopravvivere. Tra questi i grandi erbivori artici, come la renna e l’alce, che sostengono una lunga catena alimentare, essendo predati da molti animali carnivori e anche dall’uomo. Non è quindi un caso che da tempi preistorici il destino dei Sami, la loro stessa sopravvivenza, sia legata indissolubilmente alla sorte di questi animali, dei quali essi hanno sempre utilizzato ogni elemento: carne, pelliccia, pelle, latte, corna, persino zoccoli e cartilagini, ricavandone soddisfazione a qualsiasi necessità materiale: cibo, vestiario, utensili, arredi… Le renne però sono solo parzialmente addomesticabili. Se non vengono lasciate libere di percorrere decine e decine di chilometri al giorno per andarsi a cercare licheni e altro tipo di vegetazione, debbono essere sfamate dall’uomo e comunque non si riproducono in cattività. La conseguenza è che chi vive di questi animali deve necessariamente condurre un’esistenza nomade. Da sempre quindi i Sami hanno vissuto in piccoli gruppi organizzati in tribù, spostandosi con le loro tende per seguire la loro principale fonte di sostentamento.

La particolarità di questo ambiente non consiste solo nel paesaggio innevato e nelle temperature medie. La latitudine di questi luoghi prevede anche l’estrema oscillazione delle stagioni: 8/9 settimane di buio in inverno e altrettante in estate, con tutte le gradazioni che si presentano nel passaggio tra i due periodi. Sia gli uomini che gli animali hanno dovuto adattarsi a queste condizioni così estreme e a cambiamenti così veloci. Che cielo vedono allora i Sami. Vedono il sole di mezzanotte nel periodo estivo: il sole si abbassa ma non scende mai sotto l’orizzonte. Ma vedono anche un tramonto speciale: quello dopo il quale il sole non sarà più visibile per lungo tempo. Non è quindi strano che l’oggetto celeste più importante in assoluto per i Sami sia il sole, che essi chiamano Beaivi. Nella religione animista e sciamanica dei Sami, a differenza di molte altre antiche civiltà dell’area mediterranea o mesopotamica ad esempio, Beaivi (Sole) coincide con una divinità femminile associata alla natura e alla fertilità.

La notte artica però non è quella cui siamo abituati noi. La mancanza quasi totale di fonti di inquinamento luminoso consente di vedere molti più oggetti celesti rispetto a ciò che vediamo noi. La luna era considerata una divinità ambigua, molto utile ovviamente nelle notti artiche era il  plenilunio. Ma in sua assenza, si pensava che la luna avesse il compito di accompagnare nell’aldilà (immaginato al di sotto della terra, dalla parte opposta del cielo) le anime dei morti. In assenza della luce lunare le stelle sono state quindi importantissime per la vita e l’orientamento di questa popolazione, che ha sempre vissuto ‘all’aperto’ e ha sempre affrontato anche lunghi periodi di vita ‘notturna’.

Questo quadro è l’opera di un’artista Sami. Sembra un’esagerazione, ma esprime abbastanza realisticamente la percezione che del cielo notturno hanno questi popoli. Il cielo è così pieno di stelle che si fa fatica a distinguere le costellazioni e a riconoscere gli oggetti più noti.
Oltre agli oggetti celesti (luna, pianeti e stelle) nel cielo dell’artico ci sono altri fenomeni che contribuiscono a rendere le notti più luminose e molto spettacolari: le aurore boreali o luci del nord.

Ma una stella su tutte aveva un grande importanza nella visione del cosmo dei Sami: la stella polare. La stella polare era per i Sami fondamentale non solo per l’orientamento ma anche perché nella loro mitologia rappresentava il chiodo che teneva unita la terra alla ‘cupola’ che secondo loro la ricopriva come una tenda. E come in una tenda, la struttura era retta da un grande palo centrale con un chiodo a tenere tutto unito e in equilibrio. Qualora questo chiodo si fosse staccato il cielo sarebbe crollato sulla terra e ci sarebbe stata la fine del mondo. La copertura era piena di buchi (le altre stelle) attraverso i quali entravano pioggia, neve, vento e gli altri fenomeni naturali. La cosmologia Sami riproduceva la loro quotidianità di nomadi, riconducendo la struttura del mondo a quella della loro tenda.

La religione Sami era animistica e sciamanica. Lo sciamano era colui che riusciva a entrare in contatto con il mondo dei morti e in sintonia con la natura e gli dei. Lo faceva battendo a tempo su uno speciale tamburo fatto con legno e pelle di renna sul quale erano presenti varie decorazioni. Alcuni tamburi erano ripartiti in vari campi, all’interno dei quali ci sono raffigurazioni stilizzate di uomini, tende, animali artici. Altri, invece, erano decorati con uno schema che vedeva al centro un simbolo che rappresentava il sole, attorno cui tutti gli altri disegni si disponevano in modo non casuale, secondo gli studiosi, ma riproduceva la posizione di alcune delle costellazioni e degli oggetti celesti di riferimento. Si trattava quindi di una forma di primitive mappe del cielo, con le quali gli sciamani riuscivano meglio ad orientarsi nelle lunghe notti artiche.


Ma cosa vedevano nel loro cielo i Sami? Non stupisce che interpretassero le costellazioni e gli oggetti celesti che riuscivano a vedere in modo diverso dal nostro e da quello di altre civiltà. Essi vedevano il cielo dominato da una scena di caccia al grande alce, in cui tanti personaggi erano coinvolti come testimoniano i disegni ritrovati su molti tamburi sciamanici. Si può vedere un grande alce (Cassiopea, Perseo e Auriga), una muta di cani incitati da una donna (Pleiadi), due sciatori armati (i gemelli), tre cani (o i tre figli dell’eroe Galla ovvero le tre stelle della cintura di Orione), un altro cacciatore armato di arco e frecce (Arturo e il grande carro). Lo stormo di uccelli in volo indica la Via Lattea che secondo i Sami era appunto utile agli uccelli per indicare loro il percorso della migrazione stagionale nord-sud. La grande stella rappresenta il pianeta Venere, anche esso tra gli oggetti più luminosi del cielo notturno dopo la Luna.

Ancora una volta si ha l’occasione di riflettere sulla stretta relazione che intercorre tra la cultura in senso lato di un popolo e la sua visione del cielo: l’arbitraria creazione di asterismi e costellazioni riflette a ogni latitudine e in ogni epoca storica la visione del mondo e di se stessi propria di ogni comunità umana.